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Parlare o scrivere dei propri idoli risulta sempre una faccenda piuttosto intricata, soprattutto quando l’idolo in questione corrisponde al nome e cognome di Marco Pantani. Qualche mese fa, a 10 anni di distanza da quella maledetta notte di San Valentino, ispirato da una certa nostalgia tentai per quanto possibile, di tracciare un personale ricordo del Pirata.

Oggi riscorrendo quel testo mi accorgo che ogni parola è vacua: nonostante la ricchezza lessicale del nostro vocabolario, infatti, non ci sono ne’ verbi ne’ aggettivi in grado di rappresentare l’epopea del Pirata. Dunque mi ero ripromesso di non parlarne più, di non scomodare più sostantivi o figure retoriche esagerate per rivivere le gesta di un campione, che entrato nella storia, non ha certo il bisogno di essere ricordato.

Avrei tanto voluto continuare a tacere, ma quello che è successo e continua a succedere dalla riapertura dell’inchiesta sulle circostanze che hanno portato al decesso di Marco, mi infastidisce non poco. Mi irrita a tal punto da aver sentito il bisogno di buttar giù due righe. Righe rivolte a tutti coloro che non hanno ritardato di un centesimo nel dare risalto alla riapertura del caso Pantani. Per carità, l’Audience detterà anche le regole del gioco ma non può finire per essere il tutto.

Non si dovrebbero sacrificare i fatti all’altarino degli ascolti televisivi. Si, perché i fatti, piaccia o meno, accertano che il Pirata è morto per overdose di cocaina. Droga, a detta delle deposizioni del medico personale, che Pantani assumeva in dosi massicce (si parla di 100gr alla settimana), e che nell’ultimo periodo era arrivato persino a mangiare. Droga che nel peregrinare degli ultimi mesi portò Marco a stati di alterazione tali da indurlo a mettere a soqquadro le stanze d’albergo nelle quali sceglieva di soggiornare.

Nonostante i fatti, però, periodicamente assistiamo al solito teatrino per cui la morte di Marco sarebbe diventata un mistero degno di “chi l’ha visto?”. Gli opinionisti più spregiudicati promuovono l’idea dell’omicidio, parola che lo stesso avvocato De Rensis (legale della famiglia Pantani) si guarda bene dal pronunciare.

Certo non tutti i commentatori hanno avuto l’ardire di sostenere l’ipotesi dell’assassinio, ma una larga parte di questi pur non arrivando a tanto, ha fatto passare il messaggio, sottolineando le incongruenze e le stranezze dell’inchiesta che ha stabilito la morte per suicidio, che forse il Pirata non è morto come un tossicodipendente qualsiasi.

Ogni appiglio è diventato buono per avvalorare questa tesi: prima sono arrivate le testimonianze di chi stava nella stanza affianco, poi i video della scientifica che non spiccavano per rigore e professionalità dei protagonisti, e ancora le dichiarazioni dei due medici accorsi per primi al capezzale del Pirata che hanno sostenuto di non aver visto nessuna pallina di coca e mollica di pane di fianco al corpo esanime del campione cesenate. E non vi è da dubitare che di sorprese ce ne saranno altre. Sarò io a sbagliare, ma se si passassero al vaglio tutte le indagini come si sta facendo con quella del Pirata, non credo sarebbero molte, quelle da cui non emergerebbero imprecisioni o errori di sorta.

E il punto sta proprio qui, che senso ha concentrarsi su minuzie e particolari irrilevanti, quando tutti, genitori e amici, conoscevano i problemi drammatici di Marco, quando tutti, sapevano che non si stava mettendo bene, e quando qualcuno era arrivato a consigliare vivamente l’internamento di Marco quale unica soluzione plausibile per salvarlo. Perché sarà pur triste dirlo, ma il Pirata è morto solo, abbandonato dal mondo che lo aveva osannato portandolo alla ribalta.

È morto, come lui stesso ha appuntato da qualche parte in quella maledetta sera, in uno stato di “torrida tristezza”. Ecco perché bisognerebbe avere il buon senso di smetterla una volta per tutte. Smetterla di tirare in ballo molliche di pane e coca o fantomatiche impronte digitali. Smetterla di ricamare trame degne di una soap opera attorno al tragico epilogo della vita del ciclista romagnolo. Perché, al di là della triste fine, il Panta, come lo chiamavano amici e compagni di squadra, merita di essere ricordato per il fuoriclasse assoluto che è stato.

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